martedì 9 ottobre 2007

Il fatale confine fra possibile e reale

Lo studio sociopsicologico della paura, incentrato sui suoi effetti politici e giuridici, ha un peso sempre maggiore in molti studi politologici volti a comprendere meglio le complesse dinamiche che modificano più o meno impercettibilmente le nostre società postmoderne.
Tali studi erano stati già avviati con importantissimi ed ancora attuali risultati già nell'Ottocento, ad esempio dal filosofo danese Soeren Kierkegaard (Begrebet Angest in particolare, ma conosco solo l'edizione tedesca, Der Begriff Angst, 1844) o da Theodor Mommsen, sommo storico e fine conoscitore dell'animo umano, sempre cangiante nella storia e però sempre uguale.

Ma adesso, con il potenziarsi degli strumenti di comunicazione ed informazione di massa e soprattutto colla nascita dell'idea di opinione pubblica, sempre più decisiva in sistemi politici di democrazia rappresentativa, questa prospettiva storico-socio-psico-antropologica sta diventando sempre più importante ed interessante, in particolare per il lavoro intellettuale (e talvolta anche più o meno politico o comunque politologico) di numerosi centri di studi e think tanks statunitensi (tanto per cambiare).

La paura e l'angoscia sono due sentimenti umani molto simili ma anche diversi e talvolta respingentisi: la prima deriva dalla valutazione realistica di un pericolo effettivo ed imminente; l'altra nasce e si sviluppa nell'indeterminatezza, nella sensazione che qualcosa di orribile possa accadere, ma non vi è niente né di certo né di sicuro.

Questi sentimenti, il cui sviluppo e concretarsi dipendono anche e soprattutto dall'informazione, hanno spesso condotto a decisioni molto gravi e, superate le condizioni critiche, viste a posteriori come infamanti ; tanto per fare qualche esempio, la persecuzione di Ebrei e Mori nella Spagna della Reconquista, discriminati ed infine cacciati non tanto e non solo per intolleranza religiosa (certo presente e determinante), ma in quanto giudicati infide spie di stati ostili o forze occulte (paranormali e non).


O il clima di congiura e paura collettiva che indebolirono i movimenti marxisti, socialdemocratici e liberali nella Repubblica di Weimar e che di conseguenza e nel contempo favorirono grandemente (documenti riservati dei nazisti cantano) l'ascesa dei fanatici della NSDAP.


Insomma questo è un problema antropologico e sociale, almeno nelle sue manifestazioni più gravi ed irreparabili. Che può avere enormi conseguenze anche sul piano politico internazionale: il ventennio di guerre napoleoniche è difficilmente spiegabile senza porre mente alla paranoia della congiura francese paneuropea e dei terribili (per i poteri costituiti e le classi che di essi maggiormente usufruivano) effetti della Rivoluzione. Non bastano le indubbie ambizioni egemoniche (non imperiali) di Napoleone a spiegare il cataclisma politico-militare europeo che va dal 1789 alla battaglia di Waterloo e oltre.

Ma è in un altro punto che questi fattori pericolosi per la dignità e la felicità umane fanno spesso breccia.

Ed è il diritto.


Lo spirito delle leggi fondamentali (ossia la costituzione e la Carta dei Diritti dell'Uomo) è sostanzialmente la protezione dei diritti della persona umana, indifferentemente dalle sue idee, propensioni, opinioni, caratteristiche.

Ma quando la paura e l'angoscia permangono (magari anche per ragioni in qualche modo legittime e comprensibili) in una società che vuole e pretende di mantenere elevati standards di vita accettabile e dignitosa, dove si pone il margine di rischio?
Dove finisce il legittimo allarme per un pericolo e inizia una restrizione delle libertà fondamentali ed inalienabili di cui nessuno può seriamente presumere di vedere il termine ultimo e preciso?
Chi può dire serenamente che, nella certezza delle grandi conquiste giuridiche (che ancora adesso spesso non sono che lo specchio rovesciato e deformato della realtà sociale viva), la pretesa parziale e temporanea limitazione dei nostri DIRITTI sarà appunto solo passeggera e che tutto tornerà come prima, nessuno sa QUANDO, IN CHE CIRCOSTANZE e COME?

Al di là del normale buonsenso politico (è interesse di una classe politica restituire bontà sua quanto è stato tolto? I gruppi e le correnti non politiche prive di qualunque autorità o anche solo legittimità politico-decisionale, ad esempio magistrati e uomini di legge che ignorano lo spirito delle leggi o uomini d'affari desiderosi di fare guadagni e diventare più potenti, o anche semplici cittadini indifferenti ai loro diritti, queste realtà esistenti accetterebbero un ritorno ad una situazione precedente più equa?), la natura stessa del diritto, consuetudinario e destinato per sua natura ad incidere sul reale, più fedele ma anche malleabile possibile ad alcuni grandi concetti filosofici, spinge a vedere con preoccupazione fenomeni quali la restrizione delle libertà civili e dei diritti umani e dell'individuo politico.

Una riduzione dei diritti in stato di necessità avallato da una autorità giurisprudenziale è qualcosa che difficilmente può essere ignorata
o comunque non valutata anche dal giudice o dal legislatore più attento e coscienzioso; è impossibile determinare l'entità di un vulnus inferto ad una serie di categorie fondanti e determinanti del diritto, come si è configurato dai tempi di Omero a Salvo Giuliano a Kelsen ai nostri padri costituenti.
Perché la giurisprudenza non è una scienza: esistono limiti che un giudice deve rispettare; ma la legge viene interpretata. Una volta limitato un diritto essenziale, cosa impedirà di allargare le maglie di eccezionalità a quest'ultimo? O di restringere le garanzie assicurate da un altro?

Vale la pena, di fronte ad una terribile eventualità (ma occhio all'informazione), di rinunciare probabilmente per sempre (ma fosse anche solo per un giorno), ad un pezzo della nostra libertà e della nostra possibilità di vivere una vita degna di essere vissuta?

1 commento:

falecius ha detto...

la risposta, ovviamente, è no