« Io, musulmano italiano, lasciato marcire in Marocco »
Qui la dichiarazione di Khadija, moglie di Kassim, a 30 giorni dall'inizio dello sciopero della fame
"Oggi fanno trenta giorni che Kassim Britel rifiuta il cibo: giorni senza riposo, di silenzio, di sofferenza, di attesa.
Ad Ain Bourja, Kassim cerca di tenersi ritto mentre prega, ignorando i battiti affrettati a tagliare il respiro, la testa pesante, il ventre spalancato a reclamar pienezza, le viscere doloranti e acquose, la schiena che pare spezzata, …
Così ieri è svenuto, i suoi compagni l'hanno aiutato, il medico gli ha contato le costole: è molto dimagrito, eppure di ora in ora cresce la sua determinazione, una determinazione che nulla può scalfire.
Ci sentiamo al telefono, umiliata io, una volta di più dal silenzio del nostro Paese, dal fluire delle mie giornate di lavoro come se nulla fosse, con il tarlo della sua possibile morte eppure solidale con lui fino in fondo, perché quest'ingiustizia che ci ha privato della vita deve finire, in un modo o nell'altro.
E gli racconto come meglio posso del bene che avremo, e lui ha un pensiero di fede, una parola buona che solleva la pena taciuta e nascosta. Con lui sono calma, so che non ci succederà nulla che non ci sia stato destinato.
Nella nostra casa vuota, lavoro come sempre per la vita di mio marito, pena e collera sono intollerabili, Kassim ha già patito troppe violenze e privazioni, so che non resisterà a lungo, già ora si poggia ad un bastone per muovere qualche passo, ieri non è stato in grado d'incontrare sua sorella…
Per il rispetto dovuto ad ogni vita, per la giustizia dovuta alla vittima innocente di una "guerra" non sua, per la nostra famiglia separata da quasi sei anni, che il Governo italiano si decida finalmente a portare a casa questo cittadino!"
Khadija
1 commento:
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